La terza udienza del contenzioso climatico contro lo Stato.
Da una parte il pianeta, dall’altra l’industria del fossile. A tenere tra le mani la bilancia della causa del secolo è una statua della dea giustizia, arrivata oggi nelle strade del centro di Roma in occasione della terza udienza del contenzioso climatico contro lo Stato italiano.
“La crisi climatica è colpa di Stato”, c’è scritto così dietro le magliette gialle delle attiviste e degli attivisti della Campagna Giudizio Universale che accompagnano la statua verso il parlamento. Una campagna nazionale che ha lanciato nel 2021 la prima causa legale climatica italiana e trascinato lo Stato in tribunale con l’accusa di non fare abbastanza per fermare il cambiamento climatico. In piazza anche una Statua della Giustizia, opera del Maestro abruzzese Massimo Piunti.
“Abbiamo vissuto un’estate di siccità e di incendi, di alluvioni ed eventi estremi. L’Italia divisa in due tra nubifragi e fiamme continua a mostrarci gli impatti della crisi climatica: produzioni agricole a rischio, territori alluvionati, persone sfollate; ci sono geografie e comunità che subiscono gli effetti del dissesto idrogeologico e del cambiamento climatico in maniera violenta, rapida, ingiusta”. Dichiara Lucie Greyl, portavoce della campagna Giudizio Universale e attivista di A Sud. “L’Italia è un hot spot climatico, un punto caldo che si sta riscaldando più velocemente di altri paesi. E lo Stato ha le sue responsabilità: non ha considerato le evidenze scientifiche, non sta rispettando gli accordi internazionali sul clima e continua a intrecciare rapporti con l’industria del fossile. È evidente ormai che le politiche nazionali non sono in grado di affrontare le sfide poste dal cambiamento climatico. Anche le misure programmate dall’Italia nel Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima (PNIEC) aggiornato a fine luglio – ammesso che saranno effettivamente realizzate – mirano a conseguire l’obiettivo di una riduzione delle emissioni nel 2030 di appena il 36% rispetto ai livelli del 1990. Mentre le analisi scientifiche che abbiamo usato nell’impianto accusatorio della causa, ci dicono che lo Stato italiano dovrebbe tagliare entro il 2030 i propri livelli emissivi del 92% rispetto ai valori del 1990 per contribuire in modo equo al raggiungimento dell’obiettivo di riscaldamento globale entro 1,5°”.
Le richieste dei ricorrenti
Gli oltre 200 ricorrenti, tra cui 17 minori e 24 associazioni chiedono al Tribunale civile una pronuncia che riconosca le responsabilità dello Stato e imponga l’adozione di target nazionali di riduzione delle emissioni di gas serra più ambiziosi, in grado di rendere definitiva la stabilità climatica e contestualmente garantire la tutela effettiva dei diritti umani per le presenti e future generazioni, in conformità con il dovere costituzionale di solidarietà e con quello internazionale di equità tra gli Stati.
Le richieste specifiche avanzate dai ricorrenti al giudice sono:
- dichiarare che lo Stato italiano è responsabile di inadempienza nel contrasto all’emergenza climatica;
- condannare lo Stato a ridurre le emissioni di gas a effetto serra del 92% entro il 2030 rispetto ai livelli del 199
“La giudice si è riservata di prendere una decisione entro i primi mesi del 2024. Ci auguriamo e siamo fiduciosi che verrà accolta la nostra richiesta di giustizia, come è stato fatto in tanti altri ordinamenti a partire dal celebre caso Urgenda vs Paesi Bassi, e che lo Stato venga condannato a porre in essere le doverose iniziative necessarie a rimuovere lo stato di pericolo, accogliendo le richieste formulate nell’atto di citazione”, sostiene Luca Saltalamacchia, tra gli avvocati della causa, appena uscito dal Tribunale Civile di Roma.
Le climate litigation
La causa di A Sud si inserisce nel filone delle climate litigation, un fenomeno in esponenziale crescita negli ultimi anni.
A livello globale, la mancanza di politiche climatiche efficaci ha stimolato infatti il ricorso allo strumento giudiziario: i climate right cases o contenziosi climatici costituiscono oggi una componente fondamentale della strategia globale sul clima. Si tratta di un fenomeno relativamente nuovo, che ha spostato parte dell’azione climatica nelle aule dei tribunali, dove i giudici vengono chiamati a pronunciarsi circa l’adeguatezza delle misure in materia di cambiamento climatico adottate a livello statale da attori diversi.
In altre parole il contenzioso sul cambiamento climatico offre alla società civile uno strumento ulteriore di pressione contro le risposte inadeguate di governi e settore privato alla crisi climatica.
Nel report “Global Trends in Climate Litigation” pubblicato a giugno 2023 dal Grantham Research Institute e dal Sabin Center si evidenzia un aumento crescente di climate litigations. Il numero totale di contenziosi è passato in soli 5 anni da 884 cause (censite nel 2017 dall’UNEP) a 2.180 (censite nel 2022), ampliando progressivamente la presenza anche nei paesi del sud del mondo, ove oggi è radicato circa il 17% dei casi.
Se oltre il 50% delle cause sul clima ha infatti esiti giudiziari diretti che possono essere considerati favorevoli all’azione per il clima, tutti i contenzioni climatici hanno un impatto indiretto significativo sul processo decisionale in materia climatica anche al di fuori delle aule di tribunale grazie alle campagne mediatiche che li accompagnano.
I precedenti in Europa
Il crescente interesse di attivisti del cambiamento climatico e del pubblico in generale a ricorrere alle corti giudiziarie ha visto infatti un aumento di casi strategici in cui il cambiamento climatico ha giocato un ruolo centrale.
In Europa, L’Affaire du Siècle, o Notre Affaire à Tous e altri contro la Francia, rappresenta un caso emblematico: portato avanti da quattro ONG francesi, è stato sostenuto da più di 2,3 milioni di cittadini che hanno firmato una petizione presentata come documentazione ufficiale in tribunale, per poi concludersi con la condanna dello Stato nell’ottobre 2021.
Pioniera è stata la pronuncia del dicembre 2019 in cui la Corte suprema olandese, dopo un lungo iter giudiziario, ha dato ragione alla fondazione ambientalista Urgenda che nel 2013 aveva avviato un contenzioso in nome proprio e di 886 cittadini olandesi contro il Governo nazionale per non aver adottato misure climatiche adeguate agli impegni assunti in sede internazionale. Il climate case di Urgenda contro il governo olandese è stato il primo al mondo in cui i cittadini hanno ottenuto una pronuncia che stabiliva per lo Stato l’obbligo legale di prevenire i cambiamenti climatici, aprendo la strada a numerosi altri contenziosi.
Nel 2021, all’interno del caso Duarte Agostinho e altri c. Portogallo e 32 altri Stati, sei giovani portoghesi hanno presentato una denuncia contro 33 Paesi, chiedendo venga riconosciuto che l’insufficiente azione climatica degli Stati UE configura una violazione dei loro diritti umani. La causa è stata presentata direttamente alla Corte europea dei diritti dell’uomo senza aver prima esaurito le vie di ricorso nazionali, sulla base dell’urgente necessità di affrontare la crisi climatica.
Tra le ultime novità spicca la vittoria riportata, dopo anni di processi, dell’agosto 2023 da gruppo di giovani del Montana, negli USA: il giudice ha stabilito che la mancata considerazione dei cambiamenti climatici da parte dello Stato nell’approvazione dei progetti sui combustibili fossili è incostituzionale.
È la prima volta che un tribunale americano si pronuncia contro un governo per aver violato un diritto costituzionale basato sul cambiamento climatico. La decisione segna una vittoria importante nella lotta contro il modello energetico fossile che è alla base delle emissioni climalteranti.
“In definitiva”, conclude Lucie Greyl “quello del contenzioso climatico è un nuovo e promettente fronte di mobilitazione del movimento per la giustizia climatica. Dopo le cause vittoriose che in molti paesi hanno contribuito a creare un’opinione pubblica più consapevole e a fare pressione sulle istituzioni ci auguriamo che anche nel nostro paese Giudizio Universale possa raggiungere questo obiettivo”.