Il Paese dei fuochi. Viaggio nell’Italia del biocidio
Il clamore mediatico dell’emergenza ambientale e sanitaria della Terra dei Fuochi ha ottenuto l’effetto di nascondere la reale entità del fenomeno.
A cura di: Marica Di Pierri e Salvatore Altiero
Interventi di: M. Di Pierri, S. Altiero, G. Nebbia, G. Carrosio, A. Giuzio, M. Ruzzenenti, G. Ricoveri, P. Maddalena, G. Tognoni, S. Laffi, L. Sgueglia, L. Iasci, S. Ferrantes, A. Coltré, I. Farina, M. Loschi, M.E. Lacquaniti
Il clamore mediatico tributato all’emergenza ambientale e sanitaria della Terra dei Fuochi, o a quella dell’ILVA di Taranto, più che informare ha ottenuto l’effetto di nascondere all’opinione pubblica la reale entità di un fenomeno a geografia ben più diffusa: da nord a sud, è il Paese dei fuochi. Da questo punto di vista, l’eccessiva quantità di informazioni concentrate su singoli casi laddove tanti simili ce ne sarebbero da raccontare o da leggere secondo gli stessi criteri interpretativi, si traduce in manipolazione della realtà.
Assunto che l’ambito geografico di riferimento è nazionale, resta da chiarire che il Paese dei fuochi, come luogo della devastazione ambientale e del conseguente impatto sulla salute delle comunità, non è solo terra di smaltimento illegale di rifiuti e tantomeno esclusiva natura mafiosa hanno questo e gli altri fenomeni che hanno contribuito al disastro ambientale italiano. Bisogna infatti estendere la concezione di rifiuto ad ogni emissione, solida, liquida, pulviscolare e gassosa, delle attività umane nelle matrici ambientali (acqua, aria, suolo e sottosuolo) e, per Paese dei fuochi, intendere quella mappa reticolare di territori in cui esse sono state utilizzate come semplice ricettore di tali emissioni, ben oltre le capacità metaboliche della natura.
Se diamo questa più ampia dimensione ai nostri criteri interpretativi, appare chiaro che la contaminazione spinta fino ad assumere i caratteri del sacrificio di comunità umane, natura, cultura, paesaggio, economia locale sull’altare del profitto a discapito della salute delle popolazioni e della salubrità dei luoghi, è fenomeno connesso ad una ben più ampia sfera di interessi e dinamiche propri dell’attuale modello produttivo. È sacrificio insito nel modello energetico ancora fondato sulle fonti fossili, così come nella storia di quel capitalismo industriale che ha, sin dalle sue origini, guardato alla normativa ambientale come ostacolo posto ad uno sviluppo concepito unidirezionalmente. Ha a che fare poi – a dimostrarlo TAV, Expo, Mose – con “grandi opere” e “grandi eventi” ad utilità sociale nulla. Giri di tangenti e appalti truccati da leggere come monetizzazione dell’ambiente, consumo di risorse naturali e sottrazione di economia e reddito per le comunità locali.
“Stato, camorra, imprenditoria, stesse colpe”: lo si leggeva sullo striscione più grande portato in piazza il 16 novembre 2013, a Napoli, dai 100.000 che hanno animato il corteo contro il biocidio campano.
Le piazze hanno il dono della sintesi, e dietro questa sintesi si celano realtà complesse: delinearne tratti essenziali e dinamiche ricorrenti è l’ambizioso obiettivo che si pongono i saggi e le testimonianze che seguiranno queste righe introduttive.
La reale entità del danno che l’esposizione ai disastri ambientali ha comportato sulla salute della popolazione è difficile da comunicare perché si scontra con una barriera costruita proprio attraverso il principale strumento di comunicazione: il linguaggio. Esiste un “linguaggio della sostenibilità” teso a comunicare la perfettibilità di un modello produttivo e il superamento dei suoi punti critici (green economy, sviluppo sostenibile, energia verde, chimica verde), non esiste un “linguaggio dell’insostenibilità” in grado di porre l’accento sui devastanti effetti per l’uomo e l’ambiente della costante forzatura dei limiti ecologici insita nel modello produttivo attuale. È in Campania che ha iniziato a diffondersi l’utilizzo della parola “biocidio” e, come in Val di Susa, a Taranto, o in ogni altra terra sacrificata, quella mobilitazione ha creato nuovo linguaggio e costruito nuove comunità resistenti.
A margine, l’affermazione di una cultura giuridica che, introiettando come prevalente il modello di proprietà individualistico a scapito di forme collettive di gestione e possesso delle risorse, ha ignorato il limite imposto all’assolutismo proprietario dalla “funzione sociale” costituzionalmente inscindibile dalla proprietà privata. Può dirsi avere funzione sociale un diritto di proprietà esercitato all’interno di un’attività economica che serve sullo stesso piatto lavoro e morte?
Questo scambio, sviluppo/occupazione-salute, accettato per decenni, è oggi, attraverso l’emergere esperienziale dei danni sanitari subiti dalle popolazioni, alla base di una presa di coscienza collettiva che ha trasformato il problema medico da dramma riservato alla sfera individuale e dei legami familiari in spinta emotiva alla reazione collettiva e motore di attivazione di nuovi legami sociali.
Una attivazione e una ricostruzione collettiva che, nella seconda parte del presente focus, prendono vita e forma attraverso le vive voci dei territori e le testimonianze di chi, nei luoghi dispersi e invisibili del paese dei fuochi, lotta per la tutela dei territori e dei propri diritti.