Dare visibilità alle comunità

Intervista a Marica Di Pierri, di Emanuele Isonio per Valori, 27 settembre 2018.

«Il modello energetico basato sulle fonti fossili è dannoso su diversi livelli: da un lato causa fortissimi impatti territoriali, dall’altro è tra le principali cause dei cambiamenti climatici. Per questo esistono in tutto il mondo comunità in resistenza che si battono contro gli enormi interessi dei grandi player mondiali del settore.

Colossi economici che contribuiscono spesso, grazie alle attività di lobby, a scrivere le stesse strategie energetiche di interi Paesi». Dare voce a questi movimenti di protesta è fondamentale, per aumentarne visibilità ed efficacia. È quello che fa il CDCA (Centro di Documentazione sui Conflitti Ambientali) presieduto da Marica Di Pierri.

Lei sarà tra i relatori ai Colloqui di Dobbiaco, l’ormai storico laboratorio d’idee per una svolta ecologica ideato da Wolfgang Sachs, che inizia domani e sarà dedicato quest’anno proprio alle opportunità della transizione verso l’Era solare. Quali esempi porterà all’attenzione del pubblico?

Alcune di queste lotte popolari sono divenuti simboli della battaglia globale per la giustizia ambientale e climatica. Penso alle comunità amazzoniche ecuadoriane, ai popoli del Niger Delta, in Nigeria, devastato da oltre 60 anni di estrazione petrolifera (in entrambi i casi con un ruolo centrale della multinazionale di casa nostra, l’Eni). Significativi sono anche i movimenti contro le sabbie bituminose e il fracking in Nord America. In ognuno dei cinque continenti esistono migliaia di conflitti sociali mossi dalla contrarietà delle comunità locali a progetti di questo tipo.

E in Italia che cosa si muove? La mappa online nel sito del Centro documentazione sui Conflitti Ambientali traccia il quadro di un Paese tutt’altro che pacificato.

In tutta la nostra penisola sono diffuse le mobilitazioni contro poli estrattivi, petrolchimici e infrastrutture energetiche. L’Atlante Italiano dei Conflitti contribuisce a disegnare questa geografia della resistenza: dalla Basilicata, che ospita da vent’anni il più grande giacimento dell’Europa continentale, operato dal cane a sei zampe, ai molti fronti riguardanti progetti estrattivi off shore, il cui numero ha registrato una forte crescita negli ultimi anni.

Oltre all’oil&gas, c’è poi il carbone, con le centrali sparse sul territorio e il loro carico di veleni; una su tutte, la tristemente famosa centrale Enel di Civitavecchia, tra le più inquinanti d’Europa, ancora lungi dall’essere spenta.

Infine, molti sono i siti da bonificare in cui le attività petrolchimiche hanno avuto grosse responsabilità nella contaminazione ambientale e nell’insorgenza di malattie: Porto Marghera, Mantova, Brindisi, Taranto, Priolo, Gela, per fare soltanto alcuni esempi. Anche qui forti si levano, spesso da anni, le voci della cittadinanza organizzata in comitati e associazioni per chiedere tutela ambientale e rispetto del diritto alla salute.

Prima di ferragosto si è tornato a parlare molto sui media italiani del Tap, il Gasdotto Trans-Adriatico che dalla frontiera greco-turca attraverserà Grecia e Albania per approdare in Italia. A livello governativo la linea non è univoca. Il movimento No Tap rimane fermo sull’assoluta contrarietà al progetto (“Né qui né altrove”). Come si esce da questa empasse? E quanto c’è di vero nelle dichiarazioni dell’una e dell’altra parte?

Quella delle infrastrutture energetiche è un’altra partita importante. Elettrodotti, metanodotti, oleodotti destano forti preoccupazioni e sono oggetto di controversie. Il TAP, Trans Adriatic Pipeline, che prevede di portare in Salento il gas dall’Azerbaijan, è il caso più eclatante e paradigmatico.

Le posizioni delle parti in gioco sono polarizzate: da un lato ad opporsi l’intera popolazione e le circa 40 amministrazioni locali del Salento, regione incontaminata la cui economia si basa su turismo ed enogastronomia, che rivendicano il proprio diritto alla partecipazione e al rispetto del territorio. Dall’altro, supportato dai sostenitori dell’opera, il mantra dell’interesse nazionale, della trasformazione della penisola in hub europeo del gas, della maggior competitività e dei futuri, positivi impatti dell’opera sul Pil nazionale.

La forza politica di maggioranza, il M5S, attualmente al governo, ha fondato parte della sua campagna elettorale sull’opposizione alle grandi opere, tra cui il Tap. Eppure ora, anche questo tema pare essere terreno fertile per l’ennesimo cambiamento di posizione.

Di certo c’è che la vertenza No Tap è una battaglia in difesa del territorio e dei diritti di chi lo abita, a tutela di uno straordinario patrimonio naturalistico e paesaggistico, degli ecosistemi terrestre e marino e delle vocazioni economiche della zona da sicuri impatti ambientali, economici e sociali. Come se ne esce? É semplice. Facendo fede per una volta alle promesse elettorali e ascoltando la voce delle comunità.

Spesso la percezione che si ha seguendo i grandi media è che da chi si oppone a questi progetti arrivino solo dei “no” strumentali e ci siano solo raramente delle valide proposte alternative. Quanto c’è di vero in questa percezione? E quanto si sta lavorando per cercare di costruire nuovi modelli di sicurezza energetica?

La narrazione dei media e quella della politica condannano da anni i movimenti per la giustizia ambientale etichettandoli come “quelli del No”. In realtà la critica portata avanti dai tanti comitati attivi è ben più ampia, ed è piena di sì: sì alla transizione serrata verso un modello energetico rinnovabile e decentrato, la riconversione ecologica, il trasporto sostenibile, l’agroecologia, il consumo critico e condiviso, Tutte soluzioni per le quali le ricette, dal punto di vista tecnologico e scientifico, esistono già. Basterebbe la volontà politica di applicarle.

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